Era un cane che non abbaiava mai. Che non chiedeva mai insistentemente qualcosa, se voleva, grattava gentilmente con la zampa: come per dire, sono qua scusatemi. Era stata trovata piccola cucciola tremante dietro un bidone, rattrappita e mugolante. Fabio che la prese con sé (viveva da solo, poteva fargli compagnia e poi era quasi Natale) decise che le avrebbe dato un’educazione severa, con qualche giusta coccola, come è giusto. Fabio aveva diciannove anni e qualche giorno, nessuno si era ricordato del suo compleanno e decise che quello era il suo regalo di autocompleanno.
Così il ragazzo prese quel piccolo pugno di ossa e carne e con grande umiltà, tornando a casa passò dal lattaio per comprare i suoi primi litri di latte. Lui, il latt el’aveva sempre detestato. E con il cuore allegro, la bici da una parte,
il cagnolo dall’altra tornò a casa. Preparò la ciotola, infilando un ed di Nicht Kleine Music, la musica di Mozart lo aveva sempre aiutato a dare una pennellata di allegrezza alla sua vita. Lui, da ragazzo aveva sempre vissuto vicino all’odore del mare, nella sua Sicilia.
Ora faceva l’impiegato postale in una cittadina dell’alessandrino, dove di mare c’era solo una marea di tetti e comignoli. Per fortuna che c’era il profilo dei monti: la sera si piazzava lì a sognare la sua infanzia da nettuno spensierato. Suo padre non l’aveva mai conosciuto. Sua madre, allegra e pazzerellona aveva fatto in modo che la sua crescita fosse spontanea come quella di un filo di erba. Non aveva ancora la ragazza, perché per amare bisogna sapere chi si è e che cosa si vuole e lui non sapeva né la prima cosa e neppure la seconda. Ma quella sera aveva deciso che quel cane poteva essere l’inizio di una piccola storia.
Lui e il cane erano comunque una coppia e, curarando il cane, il ragazzo percepiva che fosse come curare una sua antica zampa ferita. Una cosa del genere. Perciò gli preparò il latte e piano piano fece in modo che lo leccasse e se lo bevesse tutto poi lo infilò in un tenero sacco di lana fatto da un suo vecchio maglione e gli disse: ‘Benvenuto a casa, mi porterai fortuna’.
Il cane che non si era mai sentito trattare così bene iniziò a tremare di gioia e di beatitudine: se avesse potuto fare le fusa si sarebbe messo a fare anche quello e cosi fra uno spaghetto (per Fabio) e un po’ di mollica bagnata, calarono le ombre della montagna sui nostri personaggi, con in sottofondo sempre la musica di Mozart.
Il giorno dopo il dramma fu che Fabio si dovette portare il mucchietto di carne e ossa al lavoro. Dapprima il responsabile fece una smorfia poi si intenerì e gli disse “Va bene, lascialo qui, ci penseremo… ma solo per oggi”. Fabio gli prese male allo stomaco, ma comunque si disse, va bene, domani è un altro giorno, si vedrà. Era bello pensare di poter lavorare sapendo che dopo c’era qualcuno che lo aspettava con gioia, umano o cane che fosse: insomma per il momento era così.
Perciò lavorò con maggior lena e più allegria, imprimendo una specie di nuova ondata emotiva a tutto il gruppo di lavoro che fu felice di darsi i turni, chi a coccolare, chi a dare da mangiare, chi a ninnare il cagnolo.
La sera stessa anzi ci fu un accompagnamento generale della bestiola a casa di Fabio che in verità non aveva nulla in frigo. Tant’è che ci pensarono tutti a portare qualcosa e così con la scusa del cane si vollero tutti un po’ più di bene quel giorno.
Le invidie erano sparite, le frecciate pure. Insomma c’era una bell’aria tenera in quella casetta per merito di Maila, così fu battezzata, con un nome a metà fra il dio dell’antico Egitto e l’idea di un piccolissimo porcellino.
Maila infatti mangiava tutto, anche la coperta in cui era stata messa. Non mugolava più, ma le carezze la facevano tremare come di paura. Ma quante botte aveva preso?
Il giorno dopo il battesimo e la bella serata Fabio decise di suonare ai vicini. Trovò musi ingrugnati dappertutto, finché suonò a una porta lontana dalla sua: chi sarà? E qui succede il primo miracolo: chi apre la porta è una graziosa ragazza infagottata in un pigiama più grande di lei, capelli lunghi, un dolce ovale ancora semiaddormentato, un volto tenero e duro nello stesso tempo: “Lo lasci pure qui signore”, disse la ragazza che si chiamava Aline. Fabio, si disse, vedi che questo cagnino m’ha portato fortuna e andò al lavoro più contento che mai. I colleghi ormai gli erano amicissimi, gli chiedevano del cane, manco fosse stato suo figlio.
Inoltre il suo cuore si stava preparando per andare a prendere il cane con la stessa giosa attesa di un papa che aveva portato il bimbo all’asilo e doveva correre ad andarlo a prendere il pupo. Anche Aline del resto aspettava questo momento: viveva sola con i suoi quadri da restaurare, era così sola che ogni tanto si metteva a parlare coi personaggi delle sue tele sacre. “Fate qualcosa”, chiedeva loro, “non è possibile vivere così soli come dei cani”. Così quando venne Fabio a riprendersi la creatura (Dio che momento) ci vollero pochi secondi perché queste due persone si conoscessero e riconoscessero soprattutto quel minimo comune denominatore che li aveva fatti incontrare, una solitudine incredibile e pura, fatta di attesa e di guardare i monti, come aspettando che da loro venisse qualcosa di definitivo e buono. Così si sedettero a chiaccherare con il cagnolino in mezzo a loro e non bastò un giorno e neppure un anno a raccontare tutte le cose che dovevano da anni dire a se stessi e dunque l’uno all’altro.
Totale, quel minuscolo pugno di carne e ossa di nome Maila aveva già ottenuto il miracolo del gruppo di lavoro migliorato nella comunicazione, come si dice, e il miracolo dell’amore di Fabio e di Aline. Ma che succede? Un giorno, improvvisamenete, Maila si mette a fare lo sciopero della fame. Vengono sentiti tutti i veterinari, persino l’omeopata. Niente da fare. Maila decide di scomparire: a nulla valgono le flebo, le carezze, gli sgridamenti affettuosi, l’osso speciale, i grattini speciali. Maila se ne stava accartocciata come un cerchio che non ha né capo né coda. Non riesce a deglutire, non riesce più a deambulare: viene portata alla fine con gran dolore alla clinica del cane, grazie alla colletta del gruppo di lavoro. Non trovarono nulla. Alla fine un’idea improvvisa, come una folgorazione: sarà incinta. No, non è possibile. Invece sì, Maila era incinta, ma non avendo avuto madre, non sapeva come farlo e aveva deciso piuttosto di morire. Comunque essendo stata abbandonata pensava che sarebbe comunque stata abbandonata. Come un cane. Roba da psicanalisi, ma siccome non esistono ancora psicanalisti per cani, Maila fu portata a casa nel suo vecchio maglione di lana. Dove la trovarono felicemente addormentata per sempre. Roba da cani.
America Oggi, 21 novembre 1990