Aveva sempre quel bracciale. Glielo aveva regalato la mamma quando aveva compiuto i suoi diciotto anni. Quel giorno se l’era visto scomparire, nel senso che sentiva che lo avrebbe perso e fra una cosa e l’altra era successo che non l’aveva più. Era un bracciale semplice di quelli fatti a mano da chissachi e chissacome. Ci era affezionata. Ci era affezionata e basta. Che importa che significato aveva?
Anita, così l’aveva chiamata il padre filo mazziniano, ora temeva che avrebbe perduto anche qualcosa d’altro o qualcuno di importante. sentiva che quello era il segno. Infatti quando venne chiamata all’ospedale di Brunico per diventare dirigente del reparto materno – infantile, lei era neuropsichiatra, iniziò a dirsi “vedi, ecco, hai perso il posto all’ospedale di Milano” e non diede molto peso psicologico e neppure molta gioia al fatto che era stata chiamata in un bel posto, a ricoprire un ruolo importante per lei.
Vide il bicchiere mezzo vuoto e vuotò l’amaro calice di una posizione privilegiata con l’ansia di brutti eventi. La stessa cosa successe per i compagni del team di psicologia. Li trovava tutti un po’ stupidi, comunque molto rigidi, con una lingua in più, la tedesca che lei masticava male, anzi malissimo. Faceva parte dunque di un reparto bellissimo in un ospedale d’avanguardia, in una cittadina fatta di piccole grandi cose antiche e moderne sparse con il senso dell’armonia e dell’estasi che si coglie solo in quella parte di sud Tirolo che confina con l’Austria. Ciononostante l’ansia sottocutanea che le sarebbe comunque successo qualcosa di grave non le dava respiro. Anche la casa, che aveva un balconcino di legno e fiori e che guardava le montagne era colpevole di non avere il collegamento con Internet. Insomma Anita, single, ma un tempo solare, da quando aveva perso quel piccolo segno feticista per la realtà, ma essenziale evidentemente per il suo equilibrio, dava “fuori”, quasi in uno stato paranoico.
Così i suoi assistenti, tutti uno più bravo dell’altro, non riuscivano a legare con lei, perché una barriera dura ma invisibile separava loro da lei. Anita prese a fumare, ad assentarsi spesso per andare a mangiare qualcosa al bar in una specie di corsa imbavagliata in cui si era messa. Un labirinto in cui da una parte si era smarrita. Non sapeva Anita che perdendo quel legame, quel bracciale che la univa alla madre, stava perdendo la sensazione di sé, di quella parte di se stessa che ella conosceva bene, fatta di riti e ritmi ben precisi. Aveva inconsciamente capito che perdendo quel legame poteva diventare un’altra e non sapendo chi ritrovare si era coperta di ferro e ruggine per difendersi dalle situazioni e dalle cose.
Ma poi le cose cambiarono. Un giorno infatti arriva in ambulatorio un ragazzo ebefrenico, schizzato nel cervello: parlava a mozziconi, era confuso spaziotemporalmente, ma era di una bellezza rara. Aveva solo diciotto anni e Anita ne aveva più di quaranta. Si innamora del caso, cioè veramente di quella presenza, fatta più di assenza che di altro, ma di una compostezza esteriore divina. Si innamora del “caso”, ma soprattutto di quegli occhi sbaragliati, in cerca di risposte affettive continue, si innamora di quella sperdutezza (specchio o ombra della sua stessa sperdutezza?) e inizia a farsi piacere tutto e a dimagrire e a non fumare. Prende contatti con la famiglia di A.L., il ragazzo schizofrenico, apparentemente senza cuore e con poco cervello. Chiama il padre, un ingegnere tutta consapevolezza e niente amore che la guarda come se fosse marziana. Il padre parla molto del nuovo portale e di Internet ma non una parola della relazione fra lui e il figlio. Nessun accenno poi al pessimo rapporto con la moglie. Narciso ricoperta di scienza e di conoscenza. Mostro senza cuore e senza pietà. L’avrebbe ucciso nella sua arroganza d’intellettuale che non vede altro se non se stesso. Rabbrividisce di fronte all’idea che le viene di notte che quel padre assomiglia a suo padre, che non la guardava mai, che la faceva sentire brutta, o ignorata o ignorante. Rabbrividisce di fronte alla consapevolezza che avrebbe potuto diventare come AL con un padre così presente nella sfera cognitiva, ma così assente nella sfera degli affetti. Il giorno dopo arriva la madre di AL. Bella, bionda e di gentile aspetto, come il figlio. Elegante, capace di gesti morbidi e affettuosi. Curiosa di tutto e premurosa. Affettiva e passionale. Le parla del ragazzo da quando era piccolo, delle difficoltà col marito di parlare di lui. Mio dio, l’acqua e il fuoco e in mezzo questo ragazzo spento… come incenerito. E mentre accende la sigaretta Sigfriede, la mamma di AL, scopre il polso della bella camicia di seta. Anita ha un tuffo al cuore. Il bracciale di sua madre troneggiava limpido in mezzo a fili di perle e cabochon. Al mignolo un anello marchionale, uguale al suo. Sapeva, Anita che avrebbe perso qualcosa e aspettava.
Quello che non sapeva era che avrebbe acquistato qualcosa di speciale. Il senso del mistero. Assoluto. Inequivocabile. Questa era la sua nuova visione di se e del mondo. Altro che scienza e conoscenza.
Oggi Magazine, 10 settembre 2000