Ricordate Enzo Tortora? Si disse che era morto di un “tumore psicosomatico” che aveva attaccato il suo fisico indebolito dallo stress della carcerazione e depresso per l’ipotetica ingiustizia subita. Chi diceva che erano tutte balle e chi sosteneva che la cosa era quanto meno possibile. Recentemente, a Genova, durante il congresso “Leukaemia ‘88” due psicoanalisti, la dottoressa Alessandra Lancellotti e il dottor Roberto Perotti, esperti in terapia della famiglia, hanno presentato un caso per certi versi analogo, ma, fortunatamente, a lieto fine. L’hanno intitolato: “Il ruolo delle proiezioni parentali negative in un caso di aplasia midollare grave”.
E’ la storia di una ragazza ligure che chiameremo Lucia. La diagnosi era terribile: aplasia midollare grave, una malattia di origine varia (virale, chimica ecc.) nella quale si verifica la progressiva scomparsa dal midollo osseo degli elementi “progenitori” dai quali formano i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine. Il midollo si “svuota”, il sangue non ha più ricambio e la conclusione è quasi sempre la morte in tempi più o meno lunghi. La speranza, oggi, è data dal trapianto di midollo. Lucia è guarita dopo l’intervento terapeutico degli psicoanalisti su di lei e sulla sua famiglia, una decina di giorni prima della data prevista per il trapianto. Ora sta bene, frequenta l’università, conduce un’esistenza normale….
Lucia era già stata in cura un paio d’anni prima da Alessandra Lancellotti e Roberto Perotti il cui metodo consiste ( in parole povere) nell’intervenire sia sul paziente che sulla sua famiglia a partire dalla considerazione che le turbe psichiche hanno quasi sempre origine in dinamiche famigliari più o meno “confuse”.
I sintomi di Lucia comprendevano, tra l’altro, gravi manifestazioni fobiche-ossessive ( si lavava in continuazione, non usciva, non voleva avere rapporti col prossimo). Su di lei gravava una diagnosi di schizofrenia formulata da un neurologo.
“La prendemmo in carico insieme ai suoi genitori – racconta Alessandra Lancellotti – Io seguivo lei e il dottor Perotti loro due. Ben presto ci rendemmo conto del ruolo molto “intrusivo” della madre che tendeva ad esercitare un controllo onnipotente su questa figlia unica scaricando su di lei le proprie preoccupazioni e la propria difficoltà di instaurare rapporti positivi con il prossimo e con la vita. Il tutto era legato anche all’esperienza della donna che aveva dovuto curare per anni e fino alla morte, la propria madre. Scomparsa, quest’ultima, si era praticamente trovata senza “ruolo”.
Lucia, per certi versi, era diventata la sua “paziente”, nella testa di sua madre, era ineluttabile che fosse malata in modo organico e, probabilmente, irreversibile”.
A quanto pare, il padre di Lucia, si rendeva conto che le cose non andavano per il verso giusto, ma non era in grado di avere un ruolo positivo della vicenda. “Nel corso della terapia – raccontano gli psicoanalisti – fu proprio il padre ad acquisire una funzione normativa aiutando sua moglie a recuperare una funzione genitoriale anziché terapeutici-infermieristica”. A poco a poco, Lucia smise di manifestare le sue fobie e parve avviarsi verso la guarigione.
La terapia proseguì per un certo periodo, poi, i genitori decisero di smettere, nonostante il parere contrario dei terapeuti che ritenevano necessari tempi un po’ più lunghi.
Due anni dopo, nel luglio dell’87, la madre di Lucia chiamò la dottoressa Lancellotti dicendo che la ragazza era ricoverata a S.Martino con la diagnosi di aplasia midollare. I terapeuti si consultarono e decisero che c’era una possibilità che la malattia avesse origine nella psiche di Lucia e, soprattutto, nel peso insostenibile delle aspettative della madre su di lei.
“Si trattava – racconta la dottoressa Lancellotti – di agire “come se” ci fosse qualche possibilità che anche questa gravissima emergenza patologica potesse ubbidire alla logica degli esiti indotti dalle aspettative delle figure significative come avevamo ipotizzato nei nostri studi”.
La terapia, dunque, riprese: con Lucia, all’ospedale, e con i genitori. A S.Martino, Lucia; aspettava la morte, aiutata da un ambiente tutto teso a non farla reagire ma, soltanto a compatirla e, quindi, a permetterle di essere abulica e destrutturata, a “trattarsi male”, a non lavarsi o a vestirsi senza cura. La dottoressa Lancellotti la convinse ad affrontare diversamente il problema e lo stesso pretese dal personale paramedico. Con i medici, praticamente, non ci furono quasi rapporti. A poco a poco, Lucia riprese ad aver voglia di vivere e di combattere, a darsi un progetto, una ragione.
Con la madre fu più difficile. La “battaglia” terapeutica durò qualche mese. Lucia, diede segni di miglioramento e, a dieci giorni dal trapianto, i sintomi andarono in completa remissione e il suo midollo riprese a funzionare.
Miracolo della psicoterapia? Nuove frontiere della medicina? Niente di tutto questo, dicono i terapeuti, solo un’ipotesi da verificare chissà quante altre volte ancora, prima di poter trarre delle concusioni scientificamente valide. Ma un’ipotesi certamente affascinante sui confini sempre labili e i provabilissimi intrecci tra psiche e organismo, tra salute mentale e fisica.
Massimo Razzi
Il Lavoro, 7 novembre 1988