Avevi appena diciotto anni quando mi mettesti alla luce. Allora c’era la guerra e la frase che mi ricordo più spesso, che tu dicevi, era “non ce lo possiamo permettere”. E’ una frase che ho imparato a strutturare dentro di me e che in parte è stata la mia fortuna e la mia disgrazia. Da quando ero piccola infatti, non ci si poteva permettere di dire “voglio” ma neppure tanto “vorrei”. Il sogno faceva parte di altri territori, forse più in pace o forse più fiduciosi di vincere. La realtà è stata la mia piattaforma di lancio.
Sul terreno del principio di realtà e non sempre di soddisfazione, sono nati i miei primi ricordi. La bici,con le ruotine, la “Topolino” blu, i pasti qualche volta saltati per cattiva condotta. Allora la “cattiva condotta consisteva magari solo nel non avere salutato bene la vicina. Oppure avere mangiato un pezzo di banana di nascosto. Quando andai a scuola mi ricordo che tu mi _facesti il fiocco, ma anche il grembiule. Guardavi sempre compiti e cartella. Dovevo essere perfetta. Per questo mi sporcavo in continuazione con l’inchiostro del pennino. E le mani erano spesso mangiucchiate dalla paura. Un’altra cosa importante per te era l’ordine. I vestiti dovevano essere piegati la sera, le scarpe vicine sotto il letto. La pettinatura (allora portavo il cerchietto) doveva essere giusta con la riga in mezzo. Mi ricordo anche di un paio di guantini di filo che dovevo mettere per andare a trovare una tua amica. Li avevo lasciati sbadatamente sul tram e questo mi costò un altro salto di pranzo. A quel tempo c’erano pochissime macchine e io me ne potevo andare con i pattini e le ruote oliate addirittura in mezzo alla strada. Dovevo stare attenta solo a non cadere e a non rompermi. Nel frattempo tu che avevi messo tanto rigore nell’educazione, iniziasti un’attività di produzione di pubblicità per dei giornali e delle riviste. Avevi lasciato a me piccola di dieci anni il compito di governare un po’ la casa e di fare qualcosa da mangiare la sera.
Io ne andavo fiera e orgogliosa. A dieci anni mi sembrava di essere già diventata adulta e mi godevo la casa come una padrona. Solitudine? Per niente. Ero finalmente libera di decidere quando studiare, quando rigovernare, quando uscire, stando attenta che la chiave fosse sempre con me… Più tardi a quattordici anni, la tua attività si estendeva a macchia d’olio, iniziammo una guerra tremenda tra di noi perché volevo vestirmi diversa da come tu volevi.
Le mie amicizie erano sempre “sbagliate”. Ragione per cui mi vietasti di uscire dei tutto. Erano gli anni sessanta, le ragazze non potevano ancora, almeno quelle per bene, mettersi il rossetto sulle labbra e neppure la cipria. Io addirittura volevo mettere sempre i pantaloni, erano invece vietati, come vietate erano le frequentazioni maschili e vietato era andare al cinema da sola.
Iniziai a odiarti profondamente. Ma come?Avevo fatto quasi da madre alla famiglia intera e adesso mi si sottraeva la mia età migliore? Presi a iniziare a scrivere diari che mia madre leggeva.
Decisi allora di dedicarmi alla politica, altra attività proibita per le ragazze, che erano invitate dall’allora educazione borghese a imparare a come si fa da mangiare e a come non dispiacere ai ragazzi. Fui terribile, non ci si poteva fidare di me? Tanto meglio. Iniziai una dura rivolta fatta di fughe notturne e di tira e molla con più di un ragazzo. Il telefono squillava in continuazione a casa voglia di studiare mi passò del tutto. Avevo scoperto la gioia e il brivido della trasgressione. Non era la libertà, quella che cercavo. Era proprio il piacere di fare il contrario, di vederti arrabbiare, di vederti soffrire per il potere che non mi davi e che mi ero presa da sola. Mi feci delle amicizie un po’ strane fatte di artisti e letterati. Mi proibisti anche quelle. Dicevi che bisognava tenere i piedi per terra e che non si poteva volare. Neppure con la fantasia. Feci allora della fantasia la mia ricchezza più grande. Se non potevo uscire con i miei piedi, potevo uscire con la mia immaginazione. Feci dell’immaginazione la mia forza, la mia capacità più grande. In questo sentivo che ero davvero imbattibile e più chiuse erano le porte della realtà e più aperte erano le strade della fantasia. Mi sentivo un gran gatto con gli stivali. Potevo entrare e uscire nella testa delle persone, cercare i più reconditi pensieri, penetrare nelle loro più recondite segretezze. Mi specializzai a vedere oltre, a cercare di capire attraverso il linguaggio di una stretta di mano o di un sorriso o di una occhiata cosa c’era dentro. Cosa stava avvenendo dentro alle, persone. Iniziai una strada segreta che neppure io stessa sapevo quanto fosse importante e dove poteva arrivare. A me bastava la libertà di poter guardare gli altri. Il resto era mio. Di questa capacità feci il mio punto di forza, nessuno sapeva che potevo capire, senza avere il bisogno, dì studiare. Avevo capito che ogni volto era un paesaggio assolutamente straordinario da poter contemplare, ma anche studiare e finalmente comprendere. L’assoluto divieto di uscire era diventata la premessa per andare oltre, per superare la realtà, per andare a vedere, dentro e forse anche sotto. I limiti che mi avevi imposto sono state le premesse di ogni mia conquista. Ora che lo so, so anche che la tua morte annunciata ieri dai medici, è la premessa per un altro cammino, fatto di ricordi e di un rapporto nuovo. Quello fra me, te e l’eternità. Hai saputo insegnarmi a vivere. Adesso mi insegni a come affrontare ciò che la mia fantasia non conosce. E che si chiama mistero. La porta chiusa, dietro cui mi avevi messo da ragazza, non mi fa più paura. Il limite questa volta è stato tolto e noi possiamo finalmente volare assieme in una dimensione nuova di rapporto. Per questo ti ringrazio, madre.
Oggi Magazine, 9 aprile 2000