Si accende una sigaretta. La consuma in poche boccate. Ne accende un’altra, poi un’altra ancora. Sbuffa, si agita sulla poltroncina. Ci sta appena, stretto tra i braccioli. Roberto è grassissimo. Divora tutto quello che gli capita. Persino quando parla, sembra si mangi le parole. “Raccontami tutto” lo incoraggio. E lui comincia. È il primogenito di una famiglia senza problemi economici: ha ventisei anni e vive con i genitori in una villetta poco distante da Milano. Suo padre è in pensione, dopo una vita dedicata all’azienda e alla famiglia. La mamma ha un debole per il primo figlio. Quando Roberto decide di allontanarsi da casa, prima per un viaggio, poi per lavoro, lei non sopporta il distacco: cominciano gli svenimenti improvvisi e inspiegabili, i problemi cardiaci. Ma Roberto sembra deciso. Dopo la scuola superiore fa subito il servizio militare: dodici mesi per pensare al futuro. Non studierà ingegneria, come suo padre, ma non ha alternative concrete. Allora parte, va in giro per il mondo, alla ricerca dì idee.
UN LAVORO UMILE LONTANO DA CASA
Si ferma a Bornemounth, in Gran Bretagna, come giardiniere in un grande cottage. È felice, appagato. A casa, dapprima, approvano la sua scelta di costruirsi la vita da solo. Ma poco a poco l’atteggiamento di mamma e papà cambia. Quando Roberto torna a casa, l’ultimo Natale, a ogni parola si sente rispondere: Tutto questo lontano dai tuoi! Ci hai abbandonati, per fare i tuoi comodi! Sei un egoista! Uno scansafatiche! Qui ci sarebbe tanto da fare. Potresti curare i nostri interessi, che sono anche i tuoi… Abbiamo lottato una vita perché avessi una posizione, tu te ne vai e vorresti che fossimo contenti?” Un diluvio di recriminazioni si scarica sull’entusiasmo del giovane. Si aspettava incoraggiamento, si ritrova sotto accusa per aver tradito la famiglia. Ai lamenti della madre si unisce la disapprovazione muta del padre. Se ne sta seduto sulla sua poltrona preferita, vicino alla finestra, lo sguardo perso nel vuoto. Se Roberto tenta di parlargli, lui non risponde, non guarda nemmeno. Ogni tanto prende dalla tasca un fazzoletto, si pulisce le lenti inumidite di pianto. Un silenzio carico di rimproveri. Roberto non si spiega questa ostilità. Durante le feste il clima sembra migliore, ma presto torna la desolazione. Finalmente, una sera che può uscire con gli amici, Roberto si sfoga. All’inizio è pacato, poi non si controlla, urla, insulta, provoca, aggredisce. Arrivano una volante e un’autoambulanza, portano Roberto a
Niguarda: è in stato dissociativo grave, con una “crisi pantoclastica”, cioè con l’impulso di distruggere tutto quello che gli capita per le mani. La madre e
il padre corrono da lui, lo tranquillizzano: “Non è niente, passerà. Tutto si accomoderà nel migliore dei modi”.
PRIGIONIERO DI UN AFFETTO ECCESSIVO
Mentre loro parlano, Roberto cerca i vestiti. È convinto di andare a casa. Invece no. Deve restare in osservazione per una ventina di giorni. “E i miei fiori? Le piantine? E il mio posto da giardiniere?” chiede. I suoi genitori, come a un bambino che fa i capricci, dicono: “Quando starai meglio se ne parlerà! Per ora prendi le gocce e pensa a guarire!” Roberto passa venti giorni nel reparto di neurologia, inebetito dai calmanti. Vogliono convincerlo che è pazzo perché ha lasciato i genitori. E ingobbito, curvo come sotto un macigno. Il senso di colpa per aver abbandonato i suoi lo opprime. Il ricatto affettivo lo incatena e Roberto accumula rabbia, la cova dentro. Non ha nessuno con cui sfogarsi, è depresso. Papa e mamma gli sono attorno, pronti a coccolarlo. Si sentono di nuovo utili, hanno in pugno il suo destino, come quando era piccolo: “Coraggio, non ti lasceremo solo”. Sembrano quasi contenti di vedere il figlio prostrato, senza idee. Tutta la rabbia che Roberto non grida loro in faccia (come potrebbe accusare chi lo riempie di cure e attenzioni?) la sfoga mangiando. Afferra qualsiasi cosa e la divora, col gusto di distruggerla. Usa la bocca come un’arma, l’unico mezzo per guadagnare la libertà. È in gabbia, ma continua a sognare la fuga: “Quando esco parto per l’Inghilterra e non torno più! Mi faccio la mia vita”. Intanto è qui, sempre più grasso, sempre più disperato. E la sua famigliola, tutta riunita davanti a me, mi prega: “Lo guarisca, dottoressa. Lo faccia tornare a casa, dove gli vogliamo tutti bene”.
Per guarire Roberto devo aiutarlo a ricostruire con i genitori un rapporto meno opprimente. Non è un caso raro, il suo. Quando un adolescente esce dal nido, la famiglia si disorienta. La nascita “sociale” del ragazzo provoca dolori come un secondo parto: un trauma che trova tutti impreparati.
AMORE, MA ALLE GIUSTE DISTANZE
Comincio dai genitori: spiego che non devono puntare tutto sui figli con progetti grandiosi. Bisogna dare fiducia ai ragazzi, approvare i loro programmi anche se sono diversi dai nostri. Così potranno prendere il volo, altrimenti si troveranno con lei ali spezzate, soffocati dalle premure. Lo “svincolo parentale” è un periodo a rischio per genitori e figli: è un salto nel vuoto affettivo. In questa fascia d’età gli adolescenti si comportano in modo strano, arrivano anche a gravi devianze o alla droga. I legami troppo stretti possono diventare soffocanti. Ma il mutismo, l’aggressività, l’apatia non risolvono la situazione, anzi aumentano la confusione pseudo amorosa. La soluzione è che genitori e figli si vogliano bene alle giuste distanze emotive, secondo una mappa di affetti in cui ognuno ha il suo spazio. Quando i genitori di Roberto hanno capito che il loro “bambino” era cresciuto e che dovevano costruire un rapporto nuovo, aperto, libero, Roberto ha cominciato a mangiare meno e a sentirsi più tranquillo e più i amato. Nel modo giusto.