Marina si sposa che aveva quasi trenta lunghissimi anni, lunghissimi per la madre che pensava rimanesse zitella e per il padre che si sentiva socialmente snobbare la figlia.. Marina si sposa con un ingegnere elettronico, da cui ha due figlie gemelle eterozigote, vale a dire che essendo figlie di due embrioni diversi erano e sono poco fisiognomicamente uguali.
Per Marina, la nascita delle bambine è una benedizione, per i suoi genitori anche.
Per l’ingegnere, impiegato in un’azienda, invece no. Anzi è la fine di tutto. Soprattutto perché non si sentiva adeguato al ruolo di padre di due figlie nate contemporaneamente. E poi perché gli sembravano pochi i soldi che guadagnava per mantenere il tutto.
Siccome dunque il pacco-dono era costituito da due figlie, era naturale anche che l’amore di mamma fosse doppio per loro, le gemelle e metà per lui che era il marito.
Dunque per tutta una serie di motivazioni alla fine più si saldava il cerchio madre-figlie, più si scollava il padre da questo sistema, in cui erano inclusi nonni e zii. Il padre dunque, l’ingegnere iniziò a darsi al surfing e a Internet e la madre sempre più a bimbe, pappe e pannoloni. Due mondi prima molto uniti e poi sempre più distanti, sempre più lontani.
Alla fine il crac. Marina sorprende il marito che si bacia con un’altra donna sulla spiaggia a cielo aperto. Così, invece di sistemarsi per benino e dargli e darsi una mossa, lo pianta, con separazione secca e dura. Nessun tentativo di riconciliazione, nessuna possibilità di ricucire il rapporto tra marito e moglie: fui il divorzio e basta.
Marina prima abitava a Monza, in Lombardia, poi si sposta con la piccola caravana di figle nella casa del madre vicino a Porto Torres, in Sardegna.
Isolata dal dolore, ma anche dal piacere. Così le gemelline Marta e Clara iniziano la loro vita di orfane di padre vivente in uno sperduto paesino del gallurese, in una ancora più sperduta cascina vicino ad agricoltori che parlavano solo il sardo.
La madre, insegnante di scuola media riesce ad avere il trasferimento, inizia una vita tutta nuova in cui gli attori principali oltre alle bambine sono il sole, l’acqua e il vento. Fratello sole, sorella acqua e frate vento.
Le bambine dapprima sono buone e brave, carine e sorridenti. Poi arrivano i primi pruriti verso la fine dei loro nove dieci anni, che ormai tutto viene prima, anche le prime mestruazioni. E qui, apriti cielo. Clara e Marta diventano due scalmanati diavoli in gonnella, si dipingono le unghie, si tingono i capelli, si mettono forcine e vogliono il piercing.
Ma che male c’è se a dieci anni esse vogliono conoscere il mondo e fare le adulte?
Nessun male, risponde l’assistente sociale. Nessun male dicono le psicologhe. Solo un fenomeno di imitazione dei modelli adulti.
Ma la madre che si vedeva sfuggire di mano la situazione, se la tremava dentro.
Il padre passava solo trecentomila lire al mese. La madre e le ragazze abitavano appunto vicino a un paesino, ma televisione, giostrai e zingari, avevano contaminato l’animo puro e allegro delle due ragazzine.
Che da perfette bimbe diventavano di giorno in giorno sempre più minacciose e pestifere. Esempio: la madre tornava a casa? Marta e Clara si facevano trovare sporche e stravvaccate davanti alla tele, senza aver fatto neppure un compito. Inutili le ramanzine e i discorsi. Entravano di qua e uscivano di là. Inutili i discorsi e inutili le minacce.
Marina inizi a preoccuparsi sul serio. A undici anni le gemelle non ne volevano sapere di andare a scuola. A dodici avevano entrambe il moroso. A tredici avevano avuto già molti rapporti sessuali. A quattordici iniziarono a scappare quando girava loro per la testa e a inebetirsi ogni tanto con qualche spinello.
Marina che voleva preservare le figlie nell’incontaminata terra sarda da tutti i pericoli del continente si sentiva come offesa. Aveva voltato le spalle a una carriera a Milano, aveva coraggiosamente detto di no alle offerte di sua madre e di suo padre di prestarle soccorso, aveva valicato mari e monti e… adesso?
Adesso si trovava con due scalmanate anarchiche senza gratitudine, che ogni tanto le dicevano vaffan… e ogni tanto le davano calci e sberle. Roba dell’altro mondo.
Altro che telefono azzurro. Nessuno che la proteggeva dalla loro ineffabile cattiveria e sproporzionata arroganza.
Nessuno che le dava una mano. Anzi: avendo parlato con un assistente sociale si era sentita dare della nevrotica. Avendo parlato con uno psicologo si era sentita dire che ella aveva delle lacune di base e che era poco affettuosa.
Marina aveva tentato di spiegare che con trecentomila lire del padre e il suo stipendio era tanto che arrivassero alla fine del mese.
Chiedeva aiuto e si sentiva sprofondare in un mare di recriminazioni da parte delle persone stesse che essa aveva scelto per aiutarla. Si rivolge allora la giudice di Sassari. Il verdetto che sta per arrivare è “temporanea, sospensione della matria potestà”. .
Non vengono allontanate le ragazze, viene allontanata lei! Non vengono sollecitate le figlie a essere come si deve, non si tenta neppure un recupero cosidetto terapeutico! No e poi no.
Viene imposta una procedura di allontanamento temporaneo ma urgente della madre. Con tanta gioia delle figlie che oltre a essere orfane di padre vivente diventano in realtà le esecutrici materiali e sostanziali di un matricidio.
Con buona pace del sindaco del villaggetto sardo che diventa, per legge, l’affidatario delle due ragazze.
Così va il mondo da queste parti. E dalle altre?
America Oggi, 28 maggio 2000